Autore del libro "Don Vito" scritto con Ciancimino Jr
Palermo, al processo Stato - mafia depone il giornalista La Licata
"Chelazzi imboccò la pista di un contatto tra Stato e antistato sulla base di un interesse sul 41bis. Lui non utilizzava il termine trattativa, diceva piuttosto: contatti. A un certo punto delle sue indagini, disse 'qui mi devo fermare perché come magistrato non posso più andare avanti'. Il riferimento era a questioni politiche e al fatto che doveva essere il Parlamento a occuparsene. Erano talmente delicate che non poteva essere il magistrato a portarle alla luce ma ci voleva la volontà politica". Così il giornalista Francesco La Licata, oggi editorialista de "la Stampa" ha risposto alle domande del pm Francesco Del Bene, al processo sulla trattativa Stato-mafia, ricostruendo il suo rapporto con il magistrato Gabriele Chelazzi, pubblico ministero fiorentino che ha coordinato le indagini sulle stragi del '93. "Chelazzi fu convocato all'Antimafia nel 2002, non lo fecero finire di illustrare quello che doveva terminare, poi non l'hanno più chiamato. Si parlava di carcere duro, Stato e antistato per risolvere la questione dei carcerati. Chelazzi era amareggiatissimo. Lui disse a me e a Ruotolo: 'non succederà mai che mi consentiranno di fare queste indagini'". Chelazzi parlò con La Licata anche della frequenza "abnorme" del colonnello Mario Mori in Sicilia. "Lui aveva dei sospetti - ha aggiunto - in merito alla frequentazione di Mori con il direttore del Giornale di Sicilia, Giovanni Pepi. Io capivo che lui si aspettava da questo legame qualcosa di utile per le sue indagini. Chelazzi voleva ordinare una perquisizione al Giornale di Sicilia. Poi ci fu l'episodio di Riina che disse: 'se mai io darò un'intervista la darei al direttore del Giornale di Sicilia'. Dall'agenda di Mori Chelazzi aveva ricostruito la presenza di Mori in Sicilia". Ma alla domanda su quale fosse il periodo, La Licata ha detto di non ricordare.
"L'idea di scrivere un libro è venuta a Massimo Ciancimino, lui venne a Roma al giornale e mi raccontò alcune cose pesanti. Io gli dissi che ero d'accordo ma che prima avrebbe dovuto dire ai magistrati quello che poi avremmo messo nel libro". Lo ha detto il giornalista Francesco La Licata parlando al processo Stato-mafia del libro "Don Vito", scritto a quattro mani con Massimo Ciancimino, imputato e testimone. "Mi raccontò che Provenzano andava a casa sua a Roma in piazza di Spagna e anche in un'altra casa in via Vittoria, mi disse che Provenzano aveva le chiavi di questo appartamento - ha proseguito - Mi disse che c'era stato questo contatto con Mori e De Donno, i vari passaggi e mi disse dell'esistenza del signor Franco e che aveva il papello". Del signor Franco, il figlio dell'ex sindaco di Palermo non sapeva il nome ma poteva dire che "era del Sisde. Che era stato monitorato dai Servizi. Io gliel'ho chiesto miliardi di volte, ma lui non mi ha detto nulla. Alla fine prima dell'uscita del libro mi disse che si trattava di Gianni De Gennaro, l'editore ha convenuto con me che non si poteva scrivere". La Licata ha raccontato anche delle preoccupazioni di Ciancimino. "A Bologna, mi parlò di una persona dei servizi che era venuta per farlo stare zitto - ha aggiunto - La stessa cosa avvenne alla presentazione del libro a Palermo, lui mi disse: 'guarda che qui c'è uno dei Servizi venuto a intimidirmi'. E lì mi parlò dell'autista del generale Paolantoni".