Naufragio del 2013 a Lampedusa, medico siriano in aula: ho perso i miei figli
"In quel naufragio ho perso i miei due figli maschi di 5 anni e 9 mesi. I loro corpi non stati più trovati. Siamo sopravvissuti solo io, mia moglie e mia figlia. Quando l'imbarcazione si è ribaltata ho visto tanti corpi di bambini e ragazzini galleggiare e tante mani in alto in segno di auto, un cosa dell'altro mondo". E' il drammatico racconto fatto da Mohanad Jammo, medico anestesista siriano, e tra i pochi sopravvissuti nel naufragio avvenuto nell'ottobre del 2013 al largo di Lampedusa in cui morirono 268 persone tra cui 60 bambini. L'uomo è stato sentito in videoconferenza nell'ambito del processo che vede imputati l'allora responsabile della sala operativa della Guardia Costiera, Leopoldo Manna, e il comandante della sala operativa della Squadra navale della Marina, Luca Licciardi. Nei loro confronti il pm Sergio Colaiocco contesta i reati di rifiuto d'atti d'ufficio e omicidio colposo. Nel corso dell'audizione il testimone ha ricostruito le fasi della sciagura. "A bordo di quella imbarcazione eravamo circa 300-400 persone, non posso dire il numero preciso - ha spiegato davanti ai giudici della seconda sezione - Lo spazio a disposizione era poco, c'erano pochi giubbotti di salvataggio, una donna ha anche partorito. A noi siriani tutti hanno le porte in faccia, arrivare in Europa via mare era l'unica strada".
"Abbiamo aspettato tanto per i soccorsi, sono arrivati troppo tardi. Quando ho chiamato le autorità ho raccontato che ci avevano sparato contro, che imbarcavamo acqua, che due persone erano rimaste ferite". E' quanto affermato davanti alla seconda sezione penale di Roma, da Mohanad Jammo, medico anestesista, e tra i pochi sopravvissuti nel naufragio avvenuto nell'ottobre del 2013 al largo di Lampedusa in cui morirono 268 persone tra cui 60 bambini. L'uomo è stato sentito in videoconferenza nell'ambito del processo che vede imputati l'allora responsabile della sala operativa della Guardia Costiera, Leopoldo Manna, e il comandante della sala operativa della Squadra navale della Marina, Luca Licciardi. "Con il telefono satellitare del capitano ho chiamato i soccorsi. Prima di partire mi ero segnato i numeri della Guardia Costiera italiana e della Croce Rossa. Ho detto - ha ricordato il teste - con tutta la mia forza che eravamo in pericolo e di fare presto, che c'era più di mezzo metro di acqua sull'imbarcazione. L'acqua penetrava perché siamo stati attaccati da una imbarcazione con a bordo una banda armata che ha tentato, sperandoci contro, di riportarci sulle coste libiche". E ancora: "Ho contattato varie volte le autorità italiane a cui ho dato la nostra posizione ma loro mi hanno suggerito di contattare quelle maltesi essendo noi, a loro dire, più vicini a Malta. Dal canto loro le autorità maltesi ci hanno detto che eravamo più vicini all'Italia e di contattare le autorità italiane. La situazione stava precipitando: l'imbarcazione si è, poi, ribaltata e dopo oltre un ora dall'affondamento sono arrivati i soccorsi, ma oramai era troppo tardi".