Processo Stato - mafia, iniziata Camera di consiglio a Palermo
Quasi cinque anni di processo, circa 220 udienze e oltre 200 testimoni: il presidente della Corte d'assise di Palermo Alfredo Montalto, al termine delle dichiarazioni spontanee di Nicola Mancino, stamane intorno alle 10.30, ha dichiarato chiuso il dibattimento, iniziato il 27 maggio 2013, ritirandosi in camera di consiglio nell'aula bunker del carcere palermitano del Pagliarelli. Un procedimento poderoso le cui dimensioni rendono al momento difficile formulare una previsione sulla data della sentenza.
Boss, politici e carabinieri sono accusati di avere intavolato un dialogo scellerato tra la mafia e le istituzioni. Una trattativa finalizzata a fare cessare gli attentati e le stragi, avviati nel 1992 e proseguiti nel '93, per indurre lo Stato a piegarsi alle richieste dei padrini di Cosa nostra.
Imputati i boss mafiosi Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cina (Toto' Riina e' morto a novembre), gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno; Massimo Ciancimino, l'ex senatore di FI Marcello Dell'Utri e l'ex ministro Mancino. Quest'ultimo deve rispondere del reato di falsa testimonianza, Ciancimino di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Tutti gli altri sono accusati di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
Il 26 gennaio, dopo una complessa requisitoria durata una decina di udienze, i pubblici ministeri Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e i sostituti della Procura nazionale antimafia Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, avevano formulato le richieste di condanna: 15 anni di reclusione per il generale Mario Mori, 12 anni per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. Dodici anni anche per Dell'Utri. Proposti 6 anni di carcere per Mancino. La pena piu' alta - 16 anni - e' stata chiesta per il boss Bagarella; 12 anni per Cina'. Non doversi procedere per Giovanni Brusca; condanna a 5 anni per Ciancimino per l'accusa di calunnia e il non doversi procedere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, perche' prescritto.
"Questo processo - esordiva l'accusa nella sua requisitoria il 14 dicembre 2017 - ha avuto peculiarita' rilevanti che lo hanno segnato fin dall'inizio. La storia ha riguardato i rapporti indebiti che ci sono stati tra alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra e alcuni esponenti istituzionali dello Stato italiano". Esponenti delle istituzioni "hanno ceduto, per paura o incompetenza, illudendosi che la concessione di una attenuazione del regime carcerario del 41 bis potesse far cessare le bombe e il piano criminale di devastazione di vite e obiettivi. Cosa che non avvenne". Una storia che, "al di la' della retorica formale secondo cui le istituzioni combattono con fermezza Cosa nostra", avrebbe fatto emergere un'altra verita': "Una parte importante e trasversale delle istituzioni, spinta da ambizione di potere contrabbandata da ragion di stato, ha cercato e ottenuto il dialogo e poi il parziale compromesso con l'organizzazione mafiosa". Questa "mediazione occulta" ha prodotto "dei risultati devastanti, la realizzazione dei desideri piu' antichi di Cosa nostra che cercava proprio questo: non la repressione, ma la mediazione". "La trattativa era attesa, voluta e desiderata da Cosa nostra. E in quel periodo c'era un comprimario occulto, una intelligenza esterna - e' la tesi sostenuta dall'accusa - che premeva per la linea della distensione. Che diede dei segnali in tal senso, mentre Cosa nostra continuava a cercare il dialogo a suon di bombe, con i morti per terra a Milano e Firenze, e sfregiando monumenti". Se si fosse attuata la linea della fermezza, hanno argomentato i pm, "non ci sarebbe stato spazio per gli stragisti, i consiglieri del dialogo sarebbero stati individuati e assicurati alla giustizia e la strategia della paura debellata. Invece ci furono molteplici segnali volti a favorire la trattativa, come "la revoca e gli annullamenti del 41 bis". In realta', "ci furono anche prima, partendo dalla mancata perquisizione del covo di Riina". Con il risultato che, "cedendo al ricatto, lo Stato si e' messo nelle mani della mafia".