Stato-mafia, Mancino in aula a Palermo: mai contrario al 41 bis
E' un'altra storia. Una narrazione di fatti e di un intero periodo totalmente diversa da quella che i pm di Palermo da anni rappresentano al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. La voce che la racconta è quella di un ex politico, per decenni protagonista della storia del Paese, ora seduto sul banco degli imputati insieme a vertici del Ros, mafiosi e politici con l'accusa di falsa testimonianza. E' questo che i magistrati contestano a Nicola Mancino, ex potente democristiano. Ma più dell'imputazione formale quel che pesa all'ormai anziano esponente Dc è l'essere stato descritto come uno dei garanti istituzionali del patto che pezzi dello Stato avrebbero stretto con Cosa nostra negli anni delle stragi mafiose. Ed è proprio per smentire quello che definisce un "teorema" messo su dai pm che Mancino oggi ha deciso di intervenire in aula, davanti alla corte d'assise che celebra il dibattimento, con lunghissime dichiarazioni spontanee. Lo spazio dedicato alle accuse di falsa testimonianza tutto sommato è breve. In oltre un'ora l'ex ministro dell'Interno, infatti, cerca di ripercorrere la sua carriera politica passata, spiega, anche attraverso una costante azione antimafia. Che è proprio quello che i magistrati negano ritenendo che la scelta di metterlo alla guida del Viminale al posto del collega di partito Vincenzo Scotti derivasse non da logiche di partito, ma dal bisogno di avere in quella carica un personaggio più "morbido" verso le cosche. Mancino nega raccontando uno per uno i provvedimenti presi contro la mafia e ribadisce più volte di avere sempre sostenuto l'esigenza del carcere duro per i capimafia. A differenza di Nicolò Amato, ex capo del Dap, descritto dai pm come l'uomo duro contro i clan e grande sostenitore del 41 bis. "Era contrario al carcere duro - dice Mancino - e quando morì Borsellino non si fece nemmeno vedere". Sul giudice ucciso da Cosa nostra il 19 luglio del 1992 l'ex ministro si sofferma in qualche passaggio. "Non ho mai escluso di averlo incontrato il giorno del mio insediamento", dice definendo false e strumentali le ricostruzioni che lo vogliono reticente sul fatto. Dure le parole di mancino su Massimo Ciancimino, imputato e teste al processo, recentemente arrestato per scontare due condanne. Inattendibile, così lo definisce sostenendo che gli stessi pm ne hanno messo in dubbio la credibilità. "L'ho denunciato, ma dell'esito delle mie denunce non ho saputo più nulla", spiega. Sulle accuse di aver mentito durante i confronti in aula con l'ex Guardasigilli Claudio Martelli e con Scotti, Mancino torna a difendersi. "Martelli, al contrario di quanto ha detto ai giudici, - spiega - non mi riferì mai di avere perplessità sul comportamento del Ros e di sapere di incontri dei carabinieri con Vito Ciancimino (l'ex sindaco mafioso tra i protagonisti della tratattiva ndr)". E ancora, "al Viminale venni messo per ragioni politiche". Una tesi, che cerca di dimostrare citando pezzi di giornale e testimonianze di colleghi, che l'imputato ripete dall'inizio della storia.